22 Jul
22Jul


Il tempo dello smart working era ormai finito. Anna aveva ripreso le attività direttamente in redazione e così, ogni giorno alle 7.37 il treno arrivava puntuale a portarla al lavoro. Era il lavoro dei suoi sogni, o almeno così credeva. Giornalista in una rivista di moda accreditata a livello internazionale, un monolocale acquistato con mutuo trentennale, scarpe e borse sempre alla moda, un fidanzato brillante e di successo. No, davvero di più non avrebbe potuto chiedere. Eppure sentiva che qualcosa mancava. In quel treno che per due ore della sua giornata, andata e ritorno, diventava la sua casa, scorreva un mondo che ogni giorno le lasciava dentro un senso di tristezza e malinconia. Milano era diventata da tempo una città cosmopolita, una madre accogliente ma al contempo distaccata. Anche lei, a volte, sentiva di appartenere ad un’altra realtà, quella che aveva lasciato ormai vent’anni prima, quando dopo il diploma aveva detto con forza addio a quel paesino della Sardegna nascosto tra le colline, troppo piccolo e stretto per lei. Erano pensieri che ogni tanto si affacciavano, ma che con forza scacciava, forte della sua indipendenza e realizzazione personale. In treno, a Milano non si parla mai, non capita mai di scambiare qualche parola, neanche qualche banale osservazione sul tempo. Qualche volta vorrebbe anche solo esclamare “Che carino!” rivolto ad un cane al guinzaglio, ma poi si ricorda di non essere nella tratta Macomer – Oristano e lascia perdere. L’abitudine ad osservare le persone, invece, non è proprio riuscita a sradicarla, ma forse qui rientra anche un po’ di deformazione professionale. Erano giorni che nella mente di Anna ritornava quel viaggio di qualche giorno prima. Lo scompartimento era quasi vuoto, di fronte a lei, ma a distanza, era seduta una signora di chiare origini cinesi sulla cinquantina, mentre nei sedili a fianco, una ragazza africana aveva lo sguardo perso nel finestrino, forse a inseguire i caseggiati che scorrevano veloci o semplicemente il rincorrere dei pensieri nella sua testa. Due mondi e due età diverse a cui ne aveva aggiunto un altro, il suo. Aveva osservato la signora asiatica, i suoi piedi così piccoli. Chissà se da giovane aveva dovuto subire la pratica della deformazione dei piedi secondo la tradizione del Loto d’oro, come aveva letto in quel libro qualche tempo prima. Ma no, questo succedeva solo in quei villaggi sperduti della Cina. Probabilmente il suo destino era stato diverso, ma per certi aspetti non meno crudele. Lo sguardo della donna non inseguiva nessuna immagine, era semplicemente perso nel vuoto, in qualche punto imprecisato del pavimento del treno. Avrebbe voluto parlarci Anna, chiederle come era arrivata in Italia, dove viveva, quale fosse la sua occupazione. Ma a parte che, per il fatto che a Milano sui treni non si parla, la signora non avrebbe neanche potuto capirla. La mente di Anna ha iniziato allora ad immaginare una storia per la signora dagli occhi a mandorla. Probabilmente arrivata in Italia clandestinamente, con addosso un debito già troppo grande per lei da saldare col tempo, forse in due anni in qualche laboratorio abusivo. Chissà se aveva dei figli, una famiglia. Magari erano rimasti in Cina, o forse facevano parte di quel ricatto che serviva da monito per saldare più velocemente quel debito. Non da escludere che nella borsa avesse un documento con una faccia non sua, pagato chissà quanto, ma sicuro perché si sa, i cinesi sono tutti uguali e nessun controllo avrebbe potuto smascherarla. Chissà quante ore passava in quel laboratorio e se qualche volta le era mancata l’aria. Anna d’istinto guardò la sua camicetta di seta color perla pagata 120 euro in saldo in Via Monte Napoleone. Magari l’aveva cucita proprio lei. Sapeva che anche le grandi marche si servivano di quei laboratori. Faceva parte dell’ipocrisia della sua epoca. La ragazza africana continuava a tenere fisso lo sguardo verso il finestrino. Lo staccò solo un attimo, quando si avvicinò il controllore a chiederle il biglietto. La ragazza emise giusto qualche suono che forse voleva essere un “Prego, ecco il biglietto”. Non era una immigrata di seconda generazione, questo era chiaro. A malapena conosceva qualche parola di italiano. Anche lei aveva lasciato la sua terra per inseguire un sogno. Chissà se l’aveva trovato. Forse per alcuni già solo essere dall’altra parte del mare significa aver coronato un sogno. La ragazza aveva la pelle d’ebano, 25 anni, 30 al massimo. Un po’ grossa ma proporzionata alla sua altezza. Le labbra e il naso marcati e gli occhi di un nero intenso, più della sua pelle. Africa sub-sahariana sicuramente, Senegal, Gambia, Nigeria uno di quei paesi meravigliosi che si affacciano sull’Oceano Atlantico. Anna ripensò alle storie lette sui giornali, sui libri che leggeva per documentarsi in quel periodo in cui aveva lavorato in quel piccolo quotidiano di provincia. Sapeva qual era il trascorso di molte donne africane arrivate in Italia clandestinamente. Sapeva delle traversate nel deserto, del periodo di detenzione nelle carceri libiche, degli stupri, le vessazioni e le umiliazioni quotidiane. Sapeva anche delle gravidanze seguite alle violenze. Chissà che racconto c’era in quello sguardo perso nel finestrino. Anna non l’avrebbe saputo mai. Sapeva bene che nonostante il dolore passato, e presente in ogni cellula sotto quella pelle d’ebano, nella ragazza era vivo il senso di vittoria per essersi lasciata alle spalle quell’altra parte di mare. Spesso Anna ripensava a queste due vite incontrate per caso. A quelle esistenze senza un nome, un vissuto. Pensava a quel triangolo che si era formato quando a quei due mondi aveva aggiunto il suo. Anche lei aveva dovuto lasciare la sua terra, aveva inseguito un sogno e forse lo aveva raggiunto. Ma a che prezzo. Pensò a tutti gli anni passati nelle varie redazioni, a quegli articoli pagati una miseria. Le umiliazioni, le porte chiuse in faccia, i lavori in nero. E ora nella sua vita dorata vedeva anche lei una prigione. Quella prigione che la voleva sempre bella, alla moda, perfetta, instagrammabile. Come le modelle che comparivano nella sua rivista di moda patinata. Si rese conto che nelle diversità siamo tutti accomunati da qualcosa che ci rende simili. Tutti scappiamo da una prigione per poi entrare in un’altra, che ci rende felici o almeno così crediamo.

                                                                                                              

                                                             Prof.ssa Gianfranca Meloni







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